Raggiunto al telefono a bordo della nave che lo ha tratto in salvo, il navigatore solitario romano Matteo Miceli, ci racconta la disavventura del suo naufragio in Atlantico, quando mancavano appena un paio di settimane al trionfale rientro a Roma, a conclusione del giro del mondo senza scalo.
C’è rabbia in Matteo per come è andata e malinconia per la barca perduta, fedele compagna di viaggio fino al naufragio nei pressi dell’equatore e dopo aver navigato i mari del Sud, gli oceani più infidi e spettacolari del Pianeta, in cinque mesi di navigazione.
E altra malinconia per non aver potuto salvare la sua gallina, la superstite delle due portate con sé che gli hanno fatto molte uova e anche molta compagnia.
Matteo non me ne voglia, ma la sua relazione con l’ultima gallina, annegata dopo averla affannosamente recuperata dall’interno della barca, quando l’Eco 40 era già capovolta imbarcava acqua, mi ha fatto pensare a Wilson, il pallone da calcio con la faccia umana che gli aveva disegnato Tom Hanks, il protagonista di Cast Away, popolarissimo e drammatico film, e che era divenuto il suo inseparabile compagno nella solitudine del naufragio aereo sull’isola deserta.
E’ il segno, se mai ve ne fosse bisogno, che Matteo, come altri prima di lui, a cominciare dall’inarrivabile Bernard Moitessier, in quei mari impetuosi, più che sulla rotta dei tre Grandi Capi, ha navigato su quella ben più accidentata e profonda della ricerca esistenziale.
Per questo Matteo può dirsi soddisfatto e per questo gli vogliamo bene. Buon vento!
Ascoltate l’intervista.